La storia, le tradizioni i luoghi incantevoli di questo meraviglioso territorio tutto da scoprire e da amare. Un viaggio entusiasmante con i nostri inviati Lucia Braida e Ferdi Terrazzani.

Poco tempo fa io e Ferdi abbiamo visitato e fotografato alcuni dei tanti, suggestivi borghi della Val Tramontina; più o meno vicini ai principali centri abitati, raggiungibili su strade asfaltate o sterrate, sempre splendidi da vedere, tenuti vivi da chi non vuole arrendersi all’abbandono della montagna, anzi, ci sta tornando perché molte città diventano sempre più invivibili. 

Ho sentito diverse volte parlare di Pàlcoda, dove non arrivano strade ma solo sentieri e vie d’acqua, dove un tempo si realizzavano cappelli di paglia che venivano esportati fin nel Nord Europa. Pàlcoda, che nel 1914 contava ben 126 abitanti, non si vede da nessun punto della Val Tramontina dove io sia stata. La vedo “in differita” dalle foto di Ferdi, che ci va prima di me. Mi “cattura” subito, anche a distanza. 

Da Tamar, nel cuore della vallata 

Ci organizziamo grazie a Giampaolo, che ci fa da guida, e un giovedì mattina mi alzo alle 5, perché ho un’ora abbondante di strada per arrivare al punto d’incontro con Ferdi, Renzo e Angelo, che mi ripescano a Meduno. Assieme andiamo a Tramonti di Sotto dove ci aspetta Giampaolo. A Pàlcoda ci si arriva da più punti di partenza e noi andiamo a Tamar, un altro borgo abbandonato (ma non del tutto, ve lo dirò poi), e partiamo da lì. L’altra via sarebbe quella che ha percorso Ferdi poco tempo fa, da Campone, dove sorge un bellissimo mulino. 

Fa ancora freddo, la mattina presto, ma si prospetta una bella giornata di sole. Prendiamo il sentiero che, quasi subito, si restringe e costeggia i ripidi fianchi della vallata; è ben visibile e so che viene percorso da parecchi escursionisti. Ferdi, Renzo e Angelo sono carichi delle loro attrezzature fotografiche. L’idea è quella di vedere e immortalare Pàlcoda, la cascata chiamata “Pisulat”, la vecchia fornace, il leone di roccia e le tracce di chi ha lasciato questi luoghi tanto tempo fa. Quindi si sale, si scende, a tratti si va in piano; ogni tanto, quando siamo in alto, guardo giù e cerco di scorgere il torrente Chiarzò, che scorre senza troppo rumore in fondo alla stretta vallata. Qui i suoni sembrano smorzati, ovattati, come per preservare questo luogo dal rumore della civiltà.  

Giampaolo mi ha mandato del materiale su Pàlcoda, ma io volutamente non l’ho ancora letto, voglio avere “in saccoccia” la mia impressione personale, prima di documentarmi. So già alcune cose, però mi piace scoprire sulla pelle i luoghi come questo, sentire le emozioni che danno. Lungo il sentiero incontriamo alcuni bivi, con una precisa e bella segnaletica in legno; la deviazione per il “Leone di roccia” è brevissima, lì mi fermo ad osservare i severi contorni di questa singolare formazione rocciosa, che ricorda appunto la testa di un leone, e le graziose tabelle di terracotta realizzate dai bambini delle scuole di Tramonti nel 2006, che contrassegnano i punti di interesse del “Percorso Ecomuseale di Pàlcoda”. “Fornace”, riporta un’altra indicazione, e mentre io e Renzo continuiamo a seguire Giampaolo, Ferdi e Angelo vanno a fotografare la vecchia fornace di calce. Qui di fornaci ce n’erano due, più un mulino del quale però non è rimasto più nulla.  

Poi tiriamo dritto verso Pàlcoda, lasciando per il ritorno il bivio la cui tabella indica “Cascata 30 min.” Non chiedetemi quanto tempo ci abbiamo messo, in teoria in un’ora e mezza ci si arriva, ma questo non è luogo o giorno per guardare un orologio.

l tracciato va affrontato con attenzione, per via di alcuni tratti esposti; l’orologio, il tempo, la fretta diventano una cosa superflua, fastidiosa come una zanzara da scacciare. L’attenzione è catturata dalle vaste pinete, dallo stretto sentiero e dai ripidi fianchi dei versanti montuosi, dai fiori primaverili tra cui le genziane, che come perle blu sbucano dall’erba, da rivoli e ruscelli dalle limpidissime acque, dai resti delle “clapadories”, i sentieri lastricati pazientemente posati da chi percorreva la via, tanto tempo fa. Ciò che resta delle costruzioni di “Pàlcoda di Sotto” preannunciano che non manca molto. Dalla tabella del Percorso Ecomuseale di Pàlcoda, che si trova lungo l’itinerario, scopro che questo era un insediamento pastorale temporaneo, legato alla transumanza delle greggi e già conosciuto fin dal ‘400.  

La nostra meta 

Il cielo azzurro è punteggiato da qualche nuvoletta bianca e leggera; il sole si è alzato e, dopo un lungo percorso quasi sempre ombreggiato, ci accoglie con il suo tepore primaverile in vista di Palcoda.

La prima costruzione, quella che attira immediatamente lo sguardo, è la chiesa di San Giacomo, eretta da Giacomo Masutti nel 1780 e ristrutturata, insieme al suo campanile, tra il 2010 e 12011 grazie ai volontari del “Progetto Pàlcoda” e all’Amministrazione Comunale, attraverso un contributo regionale. 

 

Lascio il mio zaino su una panca in legno, accanto al fabbricato che funge da punto di appoggio per gli escursionisti e che a suo tempo è stato il “campo base” per coloro che hanno riportato in vita la chiesa. Mi avvicino all’edificio sacro, mentre Giampaolo entra nel piccolo campanile e fa suonare la campana. È il saluto di Pàlcoda, il suo “benvenuto”; chi arriva fin lì fa udire il suono della campana, che sembra anch’esso fermarsi poco oltre ai confini del paese, per non disturbare la quiete della valle. Ma, chissà, forse invece arriva lontano, forse valica i monti che abbracciano Palcoda e giunge nelle altre vallate, fino a Clauzetto, o nella Val d’Arzino, oppure fin nel cuore della Val Tramontina.    

La piccola chiesa non ha molti ornamenti; le statue di San Giacomo, San Bartolomeo e San Domenico sono state portate al sicuro, molti anni or sono, nella Pieve di Santa Maria Maggiore a Tramonti di Sotto. Ma immagino questo ambiente pieno di persone, adulti e bambini, nell’atto di rendere omaggio a Dio e ai suoi Santi e a chiedere benevolenza per il loro paese, al quale erano così attaccati da voler avere una chiesa loro, uno dei simboli cristiani che rendevano un insediamento umano “un vero paese”. In seguito ho letto che il prete veniva a celebrare messa qui tre volte all’anno, nelle giornate in cui si ricordavano i tre Santi. I matrimoni, i battesimi e i funerali erano officiati invece a Tramonti di Sotto, nella parrocchiale, e i defunti venivano trasportati a valle per essere sepolti nel cimitero di Tramonti.  

Le due porte della chiesa, realizzate e donate da Antonio Masutti, discendente di una delle famiglie più antiche, sono in pesante metallo; quella laterale è aperta e dall’interno, attraverso le aperture della grande croce, lascia intravedere la vallata da cui siamo giunti. La trovo molto simbolica, a testimonianza del faticoso percorso per arrivare lì, quando gli abitanti del paese dovevano trasportare merci. Ma è una porta “aperta” in tutti i sensi. Sembra una scultura, da cui però passano i raggi del sole, le sfumature del cielo blu e del verde della vegetazione. La porta principale, ancor più massiccia, è anch’essa un’opera d’arte e contrasta con la piccola inferriata che conduce all’interno del campanile. Vi entro, perché anch’io voglio salutare Pàlcoda; tiro più volte la corda, sempre più a fondo, e la campana suona. Un suono cristallino, vivace, come di sollievo per quei muri che non proteggono più alcun abitante; ecco, destatevi, ci sono visitatori! 

Esco dal campanile e cammino tra le case diroccate; alberi, arbusti, muschi e piante selvatiche hanno ripreso il comando, crescendo in mezzo a muri e arcate, finestre e vialetti, sostituendosi ai vasi fioriti con cui forse gli abitanti abbellivano le costruzioni.

Qui le case venivano costruite a più piani, anche quattro, per risparmiare prezioso terreno per coltivazioni e pascoli.  

Mi muovo piano, appoggiando i piedi con circospezione, per lasciare tutto com’è e non turbare il riposo di Pàlcoda. Le sensazioni che mi suscita questo posto sono molteplici: senso di perdita, nostalgia, curiosità, dolore, ma anche riconoscenza verso chi ha costruito le case, speranza, pace. Dopo un primo giro torno dai miei compagni di viaggio. Si chiacchiera un po’, si mangiucchiano piccoli panini preparati in fretta la mattina, si beve un po’ d’acqua. Io però mi volto spesso verso le case, come se fossero una presenza viva che cerca di attirare la mia attenzione.  

 Ritorno in mezzo ai muri, scendo fino a un piccolo ruscello e mi siedo un attimo. Chiudo gli occhi, la pelle del viso accarezzata da un vento leggero. Mi chiedo perché…Perché Pàlcoda è stata edificata proprio qui? Così lontano da tutto? Senza una scuola, una bottega, un cimitero, una strada che si possa chiamare tale…Ho visto tanti borghi isolati, in giro per il Friuli Venezia Giulia, io stessa vivo in una piccola borgata fuori dai “veri” centri abitati, con un ampio panorama sulla pianura, ma qui… Poi, nella mia mente, Pàlcoda all’improvviso si rianima di voci e suoni, di presenze e attività, rompendo l’assordante silenzio dell’abbandono, della solitudine. I Masutti, i Moruzzi e le altre famiglie che popolavano Pàlcoda, come ombre uscite dalla notte del tempo, sono lì attorno a me.  

Li immagino con i volti severi (qui non è posto per smancerie da cittadini), intenti nelle loro attività quotidiane; Pàlcoda si trova in una posizione privilegiata, con una buona esposizione solare, e il terreno attorno era destinato agli orti e ai pascoli, con verdi prati terrazzati. Immagino i bambini mentre corrono e si rotolano nell’erba, accanto alle bestie al pascolo, giocando con ciò che la natura mette loro a disposizione; Giacomo Masutti, assorto nel confezionare i famosi cappelli di paglia, con le dita nodose ma agili. Le donne impegnate a cucinare e a chiacchierare tra loro, i pastori con lo sguardo rivolto verso quel pezzo di cielo che la valle lascia ammirare. Il tempo scorre lento, a un ritmo diverso rispetto alla città, e la pace regalata dalla natura qui assume quasi una forma tangibile, fisica, tant’è intensa.  

 Pàlcoda nasce, vive momenti di benessere e fama, poi lentamente muore; accade quando l’ultima famiglia, naturalmente di Masutti, abbandona il paese nel 1923, quando ormai già tutti gli altri erano andati via, in cerca di lavoro e maggior fortuna dopo la Prima Guerra Mondiale. Il paese si rianima per poco tempo nel periodo della Resistenza, quando accoglie i partigiani della “Brigata Garibaldi Sud Arzino”, in cerca di un luogo sicuro e quasi inaccessibile. È il mese di dicembre del 1944 quando la Decima Mas raggiunge questo rifugio e uccide tre dei partigiani, ne processa e giustizia un’altra decina il giorno successivo, a Tramonti, e mette a ferro e fuoco Pàlcoda. Leggo queste notizie qualche giorno dopo, da una struggente storia scritta da Mauro Dal Tin, “Se viene neve”, sceneggiatura creata per uno spettacolo che doveva andare in scena proprio qui a Pàlcoda. Sembra la fine, ma ancor oggi queste rovine resistono, contrastando quel sottile velo di dolore e rimpianto che serpeggia tra le arcate di pietra e gli alberi che vi si appoggiano. La chiesa è stata ristrutturata. C’è ancora il prefabbricato che accoglie i viandanti, le panche e i tavoli in legno dove riposare

Mi rialzo, distratta dalle voci di Ferdi, Renzo e Angelo, che a turno entrano tra le rovine con le loro macchine fotografiche, cercando di penetrare i segreti del passato, catturare immagini e portarle fuori da qui, affinché altri possano conoscere Pàlcoda e venire qui a “sentirla”. Lentamente cammino guardando ancora quei muri, le loro ferite, le loro sfumature bianche, grigie e rosate, poi torno sulla radura. È tempo di ripartire, abbiamo ancora diverse cose da vedere. 

 Sulla via del ritorno – Il Pisulat   

Percorriamo a ritroso il cammino dell’andata fino alla tabella che indica la cascata. Qui prendiamo un nuovo sentiero, saliamo, poi scendiamo fino al torrente. Un paio di guadi, saltando sui sassi bianchi e ci fermiamo davanti a uno spettacolo che mozza davvero il fiato. Davanti a noi il rumore dell’acqua si è fatto forte.

l “Pisulat” non è a “pieno carico”, altrimenti probabilmente non ci saremmo arrivati, ma ha il fascino di una cascata nel bel mezzo del Paradiso Terrestre.  

Mi tolgo scarponi e calzetti, tiro sù i pantaloni fin sopra il ginocchio ed entro nell’acqua bassa. Ora il sole scalda la pelle e quell’acqua fresca offre refrigerio; mi avvicino alla cascata per quanto possibile, leggeri spruzzi d’acqua mi bagnano il viso. Scatto un po’ di foto anch’io, questo è uno spettacolo che non si dimentica ma vorrei mostrarlo al mondo intero. Facciamo una breve pausa, foto a raffica, finiamo le scorte di viveri prima di affrontare la ripida salita che ci riporterà fuori da questi luoghi meravigliosi.  

Giampaolo ci guida sullo stretto sentiero (meglio non soffrire di vertigini, in alcuni punti); a un tratto passiamo un altro ruscello e lì mi fermo, perché vedo una distesa di rocce frantumate in piccoli pezzi. Non ho con me la carta geologica ma sono praticamente sicura (e lo confermo, da una successiva verifica) che stiamo camminando sul Sovrascorrimento Periadriatico, quell’imponente fenomeno geologico originato dalle spinte della placca continentale africana su quella adriatica; da Barcis attraversa Andreis, dov’è più evidente, poi altre vallate questa compresa passando per Pradis e poi via via fino ad arrivare in Slovenia, a Staro Selo. Un’enorme ferita della Terra dove gli strati rocciosi sono stati piegati, deformati, spezzati in miliardi di frammenti. Ma neanche strutture come questa, che possono generare potenti terremoti, hanno cancellato Pàlcoda e gli altri splendidi borghi della Val Tramontina.  

Saliamo, saliamo ancora, parlando poco per conservare il fiato. A un certo punto, su un tratto in piano, ci fermiamo. Giampaolo mi guarda sorridendo e fa un gesto con la mano, indica qualcosa. Mi volto e la vedo un’ultima volta, laggiù, in mezzo alla profonda “V” della valle; Pàlcoda e la sua chiesa, bianca in mezzo al verde della primavera che avanza, protetta alle spalle dalle montagne più alte. Sembra salutarci da lontano, o forse chiamarci di nuovo a lei, per non rimanere abbandonata nel silenzio. Il vento sussurra con voci di bambini, porta fin qui gli echi dei suoni di un’epoca lontana. Guardo il campanile e mi pare ancora di sentire il suono squillante della campana che attraversa i muri di pietra come un brivido, scivola sulle fronde degli alberi, corre lungo torrenti e ruscelli e si ferma solo in prossimità delle montagne, che proteggono questo luogo rendendolo quasi invisibile. 

Chi salverà Pàlcoda dall’oblio? Chi ascolterà il suo silenzioso grido di chiamata? Chi proteggerà e ridarà vita a quella montagna che non spicca per la sua altezza, per le sue nevi e pareti rocciose? Quella montagna un tempo duramente conquistata da chi ci ha vissuto, anche a prezzo di grandi sacrifici, e ha edificato case, stalle, fienili, chiese, fontane, trasportando pietre e modellando con rispetto la terra per ricavare di che sfamarsi. Chi riporterà i suoni nel silenzio? Quei suoni che non stridono con l’ambiente circostante, anzi, che assieme a esso compongono una sinfonia che dà pace, completezza, armonia e senso di unione.  

Tamar e il Bivacco G. Varnerin 

Non ho modo di rispondere ai quesiti che mi sono posta guardando Pàlcoda da lontano; bisogna salire ancora ma pian piano il paesaggio cambia; il pendio si fa meno ripido, il bosco si allarga e ai pini si alternano altre varietà di alberi dai grossi tronchi. Il sentiero diviene ampio e senza accorgermene siamo di nuovo a Tamar, di fronte al Bivacco G. Varnerin, fabbricato in pietra rimesso a nuovo e gestito dalla sezione del Club Alpino Italiano di San Vito al Tagliamento. I gestori ci accolgono con un ottimo caffè, più che gradito dopo la lunga camminata. Inebriata e rinfrancata dal suo aroma vado in “esplorazione” delle rovine dell’antico borgo, che contrastano con le belle rifiniture in pietra del bivacco, le panche in legno massiccio, gli ornamenti che abbelliscono finestre, porte, mura e lastricati.  

 

Anche qui c’è la precisa volontà di animare nuovamente la vallata; oggi i gestori stanno lavorando per creare nuove panche; visitatori ed escursionisti possono trovare accoglienza per mangiare e dormire, per fermarsi un po’ di più ed esplorare la valle a fondo. Ci dicono che è consigliabile prenotare, se si vuole essere sicuri di trovare posto, perché tanta gente viene qui. 

È confortante, perché vuol dire che la bellezza di questi luoghi, la loro storia attrae tante persone; forse una parte delle mie domande trova in questo fatto le risposte. Siamo noi, le risposte. Il futuro di Pàlcoda, Tamar, di tanti piccoli borghi impregnati di ricordi e storie di vita dipende da tutti noi, che possiamo portare avanti la memoria, percorrere questi sentieri, rimettere a posto pietre, costruire panche in legno e ricostruire case e chiese 

Difficilmente paesi come Pàlcoda vedranno di nuovo abitanti stabili, ma accoglieranno ben volentieri chi vorrà tramandarne le immagini e le vicende, valorizzarne la bellezza, offrire cura e attenzione; in cambio tutti, in qualche modo, riporteranno a casa e custodiranno nel cuore un pezzetto di Pàlcoda, protetto nel cuore come il paese lo è dalle montagne che lo circondano. Protetto come una fiamma tenuta accesa nell’incavo delle mani. Protetto dalla memoria. 

 Si torna a casa 

Scendiamo infine da Tamar a Tramonti di Sotto, dove ci concediamo una birra fresca comodamente seduti fuori dal bar, ristorante e albergo che si trova nella tranquilla piazza accanto al Municipio. Giampaolo ci regala qualche bel libro sulla Val Tramontina; io continuo a lanciare sguardi attorno, verso uno dei tanti angeli in legno del paese, verso il filo di mosaico che corre lungo i muri delle case, verso le montagne. Con le nostre recenti escursioni abbiamo appena “grattato la superficie” di una vallata ricchissima di borgate, di acque, di monti e sentieri, di bellezze artistiche. Qui c’è ancora molto da documentare, da fotografare, da scoprire. Torneremo, presto, per rivedere Tamar, approfondire la sua storia e per mostrarvi altre meraviglie della Val Tramontina. Nel frattempo vi suggerisco di fare la stessa cosa. Venite qui, portate allegria, voglia di esplorare, di vivere la montagna anche senza sci ai piedi, di camminare tra borghi e vallate con la stessa curiosità di un bambino. Portate a casa souvenir fatti di serenità e relax, che qui troverete in gran quantità (ma non disdegnate i prodotti tipici “mangerecci” della valle, sono ottimi). 

Venite a Pàlcoda a festeggiare San Giacomo, sabato 29 luglio 2023, quando si salirà al borgo per celebrare la Messa.  

 

E, infine, regalate un pezzetto della vostra esperienza a chi vi sta attorno. Così si tramandano i luoghi, così i luoghi sopravvivono a tutto.  

 

Un grazie più che sincero a Giampaolo per averci dedicato il suo tempo, per farci vivere una splendida giornata; grazie a Ferdi, Renzo e Angelo per la piacevole compagnia, ai gestori del bivacco a Tamar per il caffè e la calorosa accoglienza, ai gestori dell’Hotel Antica Corte di Tramonti di Sotto per la disponibilità e la simpatia. Grazie alla Val Tramontina per tutto ciò che offre di bello e grazie a Pàlcoda per le emozioni che ci ha regalato!