Il Parco di San Giovanni a Trieste: una pratica di emancipazione 

A cura di Marina Colja Centro di Documentazione Oltre il Giardino 

L’utopia austriaca disegna l’architettura del Parco 

La storia del Parco di San Giovanni – oggi uno dei più bei parchi della città, sede di dipartimenti universitari, di uffici dell’Azienda sanitaria e di cooperative sociali, così come di attività creative ed eventi culturali –  inizia nel 1908, quando viene inaugurato a Trieste l’Ospedale psichiatrico cittadino. Nel progetto di Ludovico Braidotti, coevo allo Steinhof, il manicomio di Vienna realizzato nel 1907 da Otto Wagner, l’architettura è parte essenziale del programma terapeutico perché offre ai ricoverati la percezione di abitare in un luogo protetto, ordinato e sereno. Il modello di riferimento del “Magnifico frenocomio” è quello dell’utopia positivistica della psichiatria a cavallo tra fine Ottocento e inizio Novecento, che definiva la persona in quanto malattia, da una parte, e la disciplinava all’interno del paradigma della pericolosità sociale (“pericoloso per sé e per gli altri”).  

I padiglioni, atti a ospitare trecento pazienti, sono separati e caratterizzati da una specifica destinazione d’uso, disposti simmetricamente rispetto ad un asse di viabilità, una spina centrale, e inseriti con rigoroso ordine geometrico nel verde di un parco ricco di rigogliose zone alberate, che sale lungo la collina. All’entrata, il sanatorio neurologico, poi il piazzale a semicerchio con la residenza del direttore e la direzione, impreziosita da decorazioni e ornamenti in stile eclettico. Poco lontani, i reparti destinati ai paganti, di prima e seconda classe.  

Oltre la direzione al centro del Parco comincia il manicomio vero e proprio, da un lato del viale i reparti per gli uomini, dall’altro quelli per le donne, catalogati in base a patologie e presunte gravità: “Agitati”, “Tranquilli”, “Suicidi e paralitici”.  Poi il teatro per i momenti ricreativi – anch’essi intesi solo come strumenti terapeutici – le cucine e le lavanderie, la legatoria, il villaggio del lavoro, la chiesa del Buon Pastore, gli orti per l’ergoterapia, le stalle per i maiali e i cavalli, tra cui Marco, un ronzino che tirava il carro con le lenzuola e gli abiti sporchi, molto amato dai degenti che abitano questa “città nella città”. Un’intera città di persone ridotte alla propria “malattia”, perché tali sono considerati nell’ottica del positivismo lombrosiano: piante storte da raddrizzare con i ferri e i metodi dell’epoca: lobotomia, elettroshock, malarioterapia, oltre alla sana ed igienica ergoterapia. 

 

Franco Basaglia – L’esperienza di Gorizia 

Nel 1961 Franco Basaglia, giovane psichiatra veneziano messo ai margini della vita accademica per le sue posizioni critiche, viene nominato direttore dell’Ospedale psichiatrico di Gorizia. Qui entra in contatto con la vera realtà custodialistica, che ha avuto modo di sperimentare personalmente nel 1943 quando, da studente universitario di medicina, si avvicina ad un gruppo di altri studenti antifascisti e, a seguito del tradimento di un compagno, viene arrestato e detenuto  in carcere per sei mesi fino alla fine della guerra.  

La metodica psichiatrica dell’istituto è caratterizzata principalmente da trattamenti aberranti regolarmente inflitti e l’impatto con la durezza della realtà manicomiale, vedere i malati considerati non come persone in difficoltà, da aiutare, bensì come soggetti da controllare, reprimere, sedare e nascondere, gli fa comprendere subito che bisogna reagire a questo orrore, impegnandosi in un radicale lavoro di trasformazione istituzionale.  

Inizia così ad applicare nuove regole di organizzazione e di comunicazione all’interno dell’ospedale, rifiuta categoricamente le contenzioni fisiche e le terapie di shock; incomincia, soprattutto, a prestare attenzione alle condizioni di vita degli internati e ai loro bisogni. Basaglia cerca di seguire il modello della comunità terapeutica di Maxwell Jones, esperimento avanzato scozzese già dagli anni Quaranta, che ha conosciuto in Inghilterra durante i suoi studi. Si organizzano le assemblee di reparto, le assemblee plenarie e momenti di aggregazione sociale. L’apertura delle porte dei padiglioni e dei cancelli dell’ospedale è il naturale esito di un approccio dialettico basato sulla comprensione, per cui è necessario interessarsi al paziente in quanto persona, “mettendo tra parentesi la malattia” e superando la secolare idea del “matto” come elemento sociale pericoloso e deviante da contenere e segregare.  

Ma a Gorizia, nonostante l’impegno e alcuni risultati, le sue innovative metodologie non sono sostenute dai vertici politici e – anche a causa di un grave, sanguinoso fatto di cronaca che ha per protagonista un paziente in permesso di uscita temporanea – sono viste con sconcerto e diffidenza dai goriziani, portando Basaglia a decidere di presentare le proprie dimissioni. Quell’esperienza, raccontata da Sergio Zavoli in uno storico documentario intitolato “I giardini di Abele”, si chiude così, nel fallimento di una rivoluzione immaginata e iniziata ma non pienamente realizzata.  

Intanto però nel 1967 viene pubblicato uno dei suoi libri più dirompenti e influenti, “L’istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico”, scritto con la collaborazione di Franca Ongaro, che demolisce l’idea stessa del manicomio e delle altre “istituzioni totali” giungendo a criticare le strutture sociali che le sostengono. 

 

Chiudere per aprire – L’istituzione negata 

Franco Basaglia giunge a Trieste nell’agosto del 1971, lasciando l’insegnamento universitario a Parma e il lavoro all’Ospedale psichiatrico di Colorno, dove era stato chiamato da Mario Tommasini, assessore provinciale del Partito comunista. Ormai tutti conoscono il suo pensiero, tutti sanno però anche com’è andata a finire l’esperienza di Gorizia. 

Al suo arrivo all’Ospedale psichiatrico provinciale di Trieste gli internati sono 1186, uomini e donne, ma anche bambini, quasi tutti in “regime coatto”, cioè privati dei diritti civili e politici. Anche qui sporcizia, catene, sbarre, elettroshock. Basaglia ha l’obiettivo di mettere in  discussione e superare l’uso del ricovero coatto ancora praticato (in base alla Legge 36 del 1904), per dare applicazione alla Legge 431 del 1968, che prevede l’uso del ricovero volontario: sarà proprio questa legge lo strumento fondamentale per cercare di restituire ai pazienti i loro diritti.  

Questa volta, a differenza di quanto accaduto durante l’esperienza goriziana, Franco Basaglia è sostenuto pienamente dal giovane presidente della Provincia di Trieste, Michele Zanetti, democristiano, anche lui risoluto nel cambiare le cose, che gli dà carta bianca. Inoltre attorno a Basaglia si va formando un team di giovani psichiatri – tra cui Franco Rotelli, che lo raggiunge a Trieste dopo aver collaborato con lui a Parma – e psicologi e sostenuto da altre figure professionali alternative (artisti, pensatori, sociologi, attivisti politici, volontari) provenienti da varie parti del mondo.  

Questa congiuntura fa sì che si verifichi qualcosa di impensabile e forse di irripetibile. Il lavoro da fare e le resistenze da vincere sono sfide enormi. L’istituzione che si intende negare è l’insieme di apparati scientifici, legislativi, amministrativi, di codici di riferimento culturale e di rapporti di potere strutturati attorno all’oggetto per il quale erano stati creati: la malattia, a cui si era sovrapposto in più, nel manicomio, lo stigma della pericolosità. Occorre ora non solo accrescere la libertà di movimento dei pazienti, dentro e fuori l’ospedale, ma anche riconoscere ai ricoverati la capacità di interloquire per migliorare il trattamento nell’assistenza e nelle cure.  

Molta attenzione viene riservata all’organizzazione degli spazi interni, un aspetto che dà evidenza alle contraddizioni dell’istituzione manicomiale. Le rigide gerarchie professionali che regolano la routine di reparto e il rapporto tra operatore e paziente vengono messe in crisi, gli spazi ospedalieri sono progressivamente trasformati da reparti a case alloggio, sale riunioni, luoghi aperti per favorire lo scambio e la socialità. Si fanno riunioni e assemblee giornaliere dove tutti partecipano e si confrontano, pazienti e operatori: deistituzionalizzare il manicomio significa innanzitutto trasformare i rapporti di potere tra l’istituzione e i soggetti, i pazienti in primo luogo. Significa anche, ancora e sempre, ridefinire le relazioni e le distanze tra “il dentro” e “il fuori”. 

 

“Evviva Marco cavallo!” 

All’inizio del 1973 al Laboratorio P, che prende il nome dalla lettera di identificazione del reparto, confluiscono i ricoverati e gli operatori dell’ospedale, e poi gente di Trieste e da fuori città – Giuliano Scabia, Vittorio Basaglia e tanti altri –  per dare una mano, dipingere, chiacchierare, discutere, recitare. Basaglia dice loro: “Vi do il reparto P appena svuotato, venite, fate quello che volete, inventate”, e questo improvvisato sodalizio collettivo di animatori, teatranti e artisti dà vita ad un cavallo azzurro ma soprattutto ad una straordinaria esperienza di creatività artistica e sociale, una storia di libertà riconquistata che, secondo le parole di Basaglia, ha rappresentato “un nuovo inizio, un progetto di vita che non aveva niente in comune con l’odiata quotidianità del manicomio, ma che rappresentava piuttosto un legame tra individui in una nuova dimensione”, un simbolo della libertà “da contrapporre alla miseria della psichiatria, il sogno di una cosa migliore”. 

Sono pittori, registi, scrittori, insegnanti che non hanno mai messo piede in un ospedale psichiatrico. Vogliono essere identificati come “artisti” anche per rendere chiara agli occhi dei malati la loro estraneità alle logiche del manicomio. Accettano la sfida di reinventare la loro creatività obbligandola al confronto con la realtà, sottoponendola continuamente  al piccolo parlamento costituito dall’assemblea dei malati, dei medici e degli infermieri.  

Lo schema di lavoro iniziale prevede la costruzione di “un grande oggetto”, ma fondamentale è che il progetto sia sostenuto in modo sistematico dall’informazione e dalla comunicazione: il giro dei reparti, i volantini, il giornale murale, il teatro itinerante per esibire i materiali costruiti. Nel giro di poche settimane il grande oggetto scenico, la macchina teatrale prende la forma di un cavallo di legno e cartapesta alto quattro metri, che viene subito chiamato Marco in onore dell’amato quadrupede che dalla fine degli anni Cinquanta tirava il carro della biancheria del manicomio: era stato salvato dal macello grazie ad una lettera scritta dai pazienti ed indirizzata al presidente della Provincia, perché provvedesse ad un dignitoso pensionamento dell’animale per meriti di servizio. 

All’interno della sua pancia vengono riposti tutti i desideri e i sogni dei ricoverati (un orologio, una casa, un amico, un fiasco di vino, la libertà…), quindi si decide di organizzare una festa e ci si prepara per far uscire Marco Cavallo dall’ospedale per farlo conoscere al mondo. Ma la scultura, installata su una piattaforma con le ruote, è troppo grande e non passa attraverso le porte del comprensorio, e allora bisogna abbattere prima il recinto del padiglione P e poi il muro: rompere i muri del manicomio per uscire, abbattere le barriere che separano il dentro dal fuori non è più soltanto una metafora ma si concretizza in un gesto liberatorio e rivoluzionario reale, e per questo ancora più intensamente simbolico.  

Comincia così, una domenica di febbraio del 1973, il viaggio di Marco Cavallo, prima per le vie della città di Trieste – seguito da un corteo di ricoverati, psichiatri, operatori, studenti, artisti fino al colle di San Giusto, dove viene letto un volantino in sostegno alla lotta per il contratto degli infermieri per segnare una alleanza fondamentale nella lotta per la dignità della vita nell’ospedale – e poi per il mondo intero, a “lottare per la libertà di tutti gli esclusi” e per la chiusura delle strutture di contenzione, dai manicomi agli ospedali psichiatrici giudiziari. 

Oggi nel parco sono visibili diverse tracce di Marco Cavallo: una scultura in metallo in scala ridotta posta davanti all’attuale direzione, una riproduzione fedele in cartapesta collocata nella terrazza della stessa palazzina. 

Nello stesso giro d’anni un altro artista – pittore, scultore, grafico e vignettista –  affianca la lotta per la chiusura dei manicomi e l’apertura dei centri di salute mentale del gruppo basagliano di Psichiatria democratica: Ugo Guarino, triestino di nascita e cosmopolita per vocazione (Parigi, New York), a lungo illustratore del Corriere di Dino Buzzati e Indro Montanelli. Realizza vignette che denunciano con amara ironia la condizione degli internati, la persecuzione terapeutica perpetrata dall’istituzione manicomiale e più in generale l’ipocrisia dei dispositivi di controllo della diversità e della cosiddetta devianza messi in atto dal “sistema”.  

È il primo ad abitare il reparto P, dove avvia il Collettivo d’arte Arcobaleno mettendo a disposizione di tutti pennelli e matite colorate, e poi fa nascere un giornale murale con lo stesso nome. Un suo disegno vale più di mille parole. Nessuno come lui sa creare simboli, sintesi, figure: con arredi e macchinari dismessi dell’ospedale psichiatrico realizza una serie di sculture antropomorfe intitolata I testimoni. Una sua serigrafia racconta l’abbandono del reparto Q con una breve, semplice frase che diventerà poi una scritta sui muri del manicomio – lungo il viale principale del manicomio e sulla facciata della palazzina dell’ex direzione – una scritta nota a tutti coloro che hanno frequentato l’ospedale anche molto tempo dopo la sua chiusura, poi trasformatasi in slogan stampato su striscioni e magliette: “La libertà è terapeutica”.  

Lo slogan più basagliano di tutti l’ha inventato lui. 

 

Deistituzionalizzazione! Territorio, lavoro, emancipazione 

Il passo successivo è liberare la pratica terapeutica dalla necessità dell’internamento, costruendo servizi sostitutivi dell’istituzione precedente, servizi che abbiano la responsabilità e l’efficacia necessarie per rispondere alla totalità dei bisogni di salute mentale della popolazione. Un momento decisivo è la proclamazione dello sciopero da parte dei pazienti lavoratori che denunciano la loro condizione di sfruttamento mascherata dalla voce “ergoterapia”.  

Già nel 1972, Basaglia decide di avviare una cooperativa con i ricoverati in manicomio, che nel momento in cui diventano soci destabilizzano i rapporti istituzionali di sopraffazione trasformandosi da malati, con il permesso di uscire dai reparti solo per lavorare, a cittadini-lavoratori, acquisendo così progressivamente alcuni dei diritti da tanto a loro mancati.   

Deistituzionalizzare l’ospedale psichiatrico, però, significa soprattutto spostare il luogo di cura sul territorio, creare strutture alternative e decentrate: gruppi appartamento in città, centri di salute mentale, occasioni di socializzazione alternative, supporto al recupero del rapporto con le famiglie, da coinvolgere nei percorsi terapeutici. Il criterio non è più dettato dalla tipologia e gravità della malattia ma dalla provenienza geografica in base all’area urbana di appartenenza.  

I primi presidi territoriali vengono creati a partire dal 1975 e funzionano come centri diurni. Poi i centri di salute mentale aperti 24 ore su 24, che anticipano la Legge 180 che viene approvata nel 1978, quando a Trieste la struttura manicomiale è già quasi completamente smantellata. Il 21 aprile 1980 l’amministrazione provinciale dichiara con una delibera che l’Ospedale psichiatrico di Trieste “può cessare dalle sue funzioni e quindi essere soppresso”. Nell’agosto dello stesso anno muore Franco Basaglia. 

Dal 1981 prende forma definitiva e si rafforza la nuova rete dei Servizi di salute mentale. Alla struttura amministrativa dell’ospedale psichiatrico si sostituisce il Dipartimento di salute mentale (DSM). La direzione dell’ospedale prima e del DSM poi viene assunta da Franco Rotelli, che avvia un significativo lavoro di attivazione e sviluppo della cooperazione sociale connessa ai programmi di emancipazione delle persone affette da disturbo mentale. 

Si sviluppano programmi riabilitativi, di formazione e di socializzazione, ai quali partecipano gli utenti: attività ricreative e del tempo libero, laboratori espressivi, corsi di alfabetizzazione e scolarizzazione ma anche attività produttive. Parallelamente, infatti, dalla metà degli anni Ottanta in poi, aumenta il numero delle cooperative per l’inserimento al lavoro, con la progressiva qualificazione ed estensione della gamma delle attività. L’intervento delle cooperative è sempre più rivolto, anche negli anni seguenti, a costruire percorsi di emancipazione per le persone e per le dinamiche sociali, nel tentativo di superare la frattura radicale tra mercato del lavoro e mondo dell’assistenza.  

Nasce l’ “impresa sociale”, che porta a considerare cooperative e servizi pubblici come luoghi da investire, spostando energie risorse economiche ed umane prima immobilizzate. È il proseguimento del lungo cammino della deistituzionalizzazione in psichiatria, per cui curare significa contribuire a creare attivamente le condizioni per l’accesso ai diritti: di farsi curare ma anche di produrre, avere una casa, intrattenere relazioni significative; in una parola, avere valore come soggetti.  

Le cooperative – la prima è la CLU, Cooperativa Lavoratori Uniti – entrano come nuovo soggetto nel gioco delle istituzioni. Molte sono ancora oggi attive, finalizzate all’integrazione sociale e inserite come imprese attive e concorrenziali nel mercato locale, con un loro precisa identità. Una di queste è la sartoria sociale Lister, dove vengono riutilizzati banner e ombrelli rotti per produrre oggetti di grande bellezza; un’altra è la cooperativa sociale La Collina, nata nel 1988, che prende il nome dalla posizione in cui si trova all’interno del Parco e che offre una varietà di servizi, dall’osteria sociale Il posto delle fragole, alla radio RadioFragola, al centro di documentazione Oltre il giardino che raccoglie i materiali della storia della riforma psichiatrica basagliana. Infine, la Cooperativa sociale Agricola Monte San Pantaleone, che si occupa del verde pubblico della città e cura il meraviglioso roseto del parco, con 5000 rose provenienti da tutto il mondo. 

 

Discoteche, laboratorio P e teatro 

Negli anni Ottanta, vista la situazione giovanile dell’epoca e la drammatica diffusione dell’eroina tra i giovani, vengono istituiti anche i CMAS, poi SerT-Servizio tossicodipendenza, che collaborano con altri settori della sanità  e con le organizzazioni del privato sociale. Vengono inseriti nelle cooperative sociali già esistenti nell’ex ospedale psichiatrico molti ragazzi con problemi di tossicodipendenza e di disagio sociale, e per costruire i percorsi terapeutici, in considerazione della loro giovane età, si individuano i settori della produzione video, della musica, la falegnameria e la radio. 

È proprio con la radio e i suoi aspiranti deejay (molti di loro lo sono poi diventati veramente, alcuni anche con successo) che negli anni Ottanta prendono vita le discoteche all’aperto nel Parco, veri e propri eventi pubblicizzati e attesi dalla popolazione giovane di tutta la città, che nelle serate estive si riversa in massa nello spazio tra la chiesa e gli ex reparti. Serate, per chi le ha vissute, ancora oggi indimenticabili dove era difficile distinguere il “matto” dal “savio”, che hanno portato così la citta dentro l’ex manicomio, ora parte della città stessa. Una specie di compimento all’inverso dell’itinerario iniziato tanto tempo prima: ora è il “dentro” che diventa “fuori”, portando con sé l’abbattimento delle differenze e delle discriminazioni. 

Fondamentale è anche in quegli anni il ruolo del rinnovato Laboratorio di arti visive P, che si richiama al laboratorio che ha visto nascere Marco Cavallo, che diventa riferimento per i giovani artisti e creativi della città e che riunisce gente d’ogni tipo, promuovendo un’attività creativa fluida negli atelier di pittura, grafica, serigrafia e ceramica.  

È una “maggioranza deviante” che scopre sé stessa nel Parco e poi torna verso la città, come un’onda di contagio. Negli anni Novanta, l’Epidemya t-shirt project è un progetto  editoriale fatto corpo che prolifera come narrazione nella città. Centinaia di magliette serigrafate al Laboratorio di arti visive P – famosissime quelle che riproducono iconici messaggi come “la spettinata” di Ugo Guarino o il timbro del manicomio o la frase “Da vicino nessuno è normale” – raccolgono un palinsesto di immagini e parole “fuggite” dal manicomio che, indossate, attraversano e contaminano la città, raccontando un’altra storia, altre storie. 

Parallelamente nasce e si sviluppa un gruppo teatrale, animato da Angela Pianca e Claudio Misculin, inizialmente ispirato al teatro povero di Jerzy Grotowski e al lavoro di Antonin  Artaud. Il Velemir Teatro nasce nel 1983, sulla base di precedenti esperienze progettuali, e diventa subito luogo di sperimentazione e contaminazione, tra il teatro e la follia, tra il dentro e il fuori, prende sempre più voce, e sempre più si costruisce la sua strada.  

Come le discoteche del lunedì, anche il  “teatro dei matti” riesce a portare la città nel Parco e i matti in città con gli spettacoli, diventando così una possibilità concreta di inserimento e di ricerca di nuove future pratiche sociali, culturali e teatrali e anche di salute. Ma non si tratta affatto di teatroterapia, cioè di un percorso di cura di persone affette da disturbi psichici attraverso la messa in scena dei propri disturbi, quanto piuttosto di una compagnia teatrale a tutti gli effetti – dal 1992 ridenominata Accademia della follia, a segnarne l’evoluzione – che affronta tournée, approda nei teatri stabili e anche in TV, racconta storie di sofferenza ed emarginazione ma rivisita anche i classici della tradizione.  

La compagnia conta su un nucleo fisso di cinque-sei attori guidati dal regista e capocomico Misculin, attorno ai quali si aggregano partecipazioni più o meno occasionali, più o meno durature. C’è spazio per tutti, c’è sempre qualcosa da porre in evidenza sotto le luci del palcoscenico, “perché l’umanità ha ancora bisogno di cento, mille palcoscenici per far capire che diversità, malattia, solitudine, poesia, non appartengono solo a categorie specifiche di persone, ma sono patrimonio di tutti. Perché, dal di dentro, noi sì, noi lo sappiamo: la follia appartiene alla normalità, non ne è affatto la negazione.” 

(http://www.news-forumsalutementale.it/in-memoria-di-claudio-misculin-2/ ) 

 

Oltre il giardino 

Sulla collina del Parco, vicino alla trattoria sociale Il posto delle fragole e di fronte alla palazzina con la storica scritta “La libertà è terapeutica”, si può visitare al padiglione M il Centro di documentazione Oltre il giardino. Non è solo un archivio, ma un  luogo di incontro, un luogo che vorrebbe essere uno stimolo visivo, plastico, vivo, con una sua identità ben precisa, che racconta una storia importante: una storia tutt’altro che banale e purtroppo nemmeno tanto frequente. Che, proprio per questo, va raccolta, custodita, raccontata. Una grande storia fatta di tante piccole storie parallele, che hanno per protagonisti tantissime e tantissimi “piccoli Basaglia”, che hanno dato vita al percorso di deistituzionalizzazione in questi cinquant’anni dalla riforma della psichiatria triestina.  

È un luogo aperto alla discussione, alla ricerca, alla formazione in materia di  salute mentale ma anche di arte che custodisce una grande quantità libri, immagini e documenti riferiti al periodo 1908-1971, relativi alla fondazione e alla storia dell’Ospedale psichiatrico di Trieste, che prosegue fino ai giorni nostri raccogliendo tutto ciò che concerne lo sviluppo di quell’esperienza di trasformazione della psichiatria e in parte dalla dell’azienda sanitaria di Trieste.  

Nel centro di documentazione si possono consultare oltre cinquemila fotografie, articoli, disegni, manifesti, testi e testimonianze, più di quattrocento film, trasmissioni televisive, tutti digitalizzati ed esposti al pubblico in un ambiente interattivo sul tema della salute mentale. Tutto il materiale è liberamente consultabile con l’aiuto degli addetti del centro che sono a disposizione del visitatore, sia egli uno studente, un medico, uno psicologo, un ricercatore o solo un curioso che vuole conoscere la storia del parco e della sua trasformazione. È anche avviata l’implementazione delle voci – biografie, fatti, luoghi – di Wikipedia che riguardano la riforma basagliana. 

Il Centro cura incontri informativi e di scambio sul tema della salute mentale, partecipando a reti di collaborazione a livello nazionale e internazionale e animando la trasmissione RadioAttiva presente nel palinsesto di RadioFragola, uno spazio di informazione e dibattito tra cura e cultura, salute e territorio, diritti e movimenti, con ospiti in studio, podcast e musica.  Inoltre organizza eventi e mostre per la presentazione delle opere di nuovi artisti e scrittori ed è impegnato nell’abbellimento dei luoghi di cura della salute mentale, perché anche l’arte e la bellezza sono strumenti di cura e un diritto di tutti. È avviato il Progetto vivaio con piante provenienti dalle strutture della salute mentale presenti sul parco e nel territorio, in modo da creare una mappa botanica dei servizi. 

Il roseto del parco culturale 

Già nel 1973 Franco Basaglia e Michele Zanetti arredarono il manicomio ancora abitato con mobili di design, per riaffermare la dignità delle persone, rese “cose” nel manicomio. Gli oggetti e le forme della vita quotidiana affermavano un altro punto di vista in questa storia in cui le soggettività erano negate. Poi, fin dai primi anni Ottanta, i principi aperti della “cura dei luoghi” sostituiscono la logica chiusa dei “luoghi di cura”, costruendo il diritto alla bellezza come pratica concreta di cura ed espressione.  

Il design degli oggetti e gli spazi, realizzato dalla Falegnameria Hill, e le grafiche del Gruppo ZIP hanno fin da allora prodotto spazi comuni e istituzionali inediti: habitat sociali che affermano la dignità come strumento di emancipazione, contro la miseria dell’assistenza istituzionalizzante. Questa sperimentazione è diventata logica di progettazione oltre la salute mentale, nei distretti di salute e negli interventi comunitari che agiscono la cura come cultura, giorno dopo giorno. Il diritto alla bellezza come cardine delle pratiche di cittadinanza.  

Il roseto di San Giovanni è simbolo concreto di questa pratica trasformativa laddove si pone come obiettivo affermare la meraviglia e la bellezza come pratiche della memoria, pensando che per ricordare il manicomio, orribile luogo della negazione, serva sempre una rosa, viva meraviglia, pratica della bellezza. 

Il roseto del Parco di San Giovanni, uno dei più grandi d’Italia, curato dalla Cooperativa sociale Agricola Monte San Pantaleone, ospita quasi cinquemila varietà di rose, dedicate a personaggi, storie, immaginazioni, utopie. Un mondo intero, tra le varietà europee, americane e giapponesi, si snoda lungo i sentieri, le scale, i viali alberati del parco, in un susseguirsi di piante e rose antiche per giungere alla parte superiore, dove si trovano le rose moderne.  

In omaggio all’epoca della costruzione dell’ex Ospedale psichiatrico è stata realizzata anche una collezione di rose Liberty, collocate in aiuole simmetriche e speculari ai lati del sentiero accompagnato da archi rivestiti di rose rampicanti dell’epoca. Nell’ampia area soleggiata a terrazze, all’estremità nord-est del parco, si trova la parte più grande del roseto, dedicata alle rose moderne più note: Ibridi di Tea, rose a mazzetti, rose rampicanti inframmezzate a clematidi e a graminacee ornamentali. 

“Ma mancano cinquemila rose – scrive Franco Rotelli – e per me sono il segno della citta ancora incerta, la cifra del possibile, non inverata la pienezza della vita vera che volevamo per noi e per i folli, fratelli e sorelle dolenti con cui abbiamo fatto un lungo cammino che ci ha portato lontano ma non fin dove speravamo di arrivare (molto più in là comunque di quel che lor signori immaginava). La rosa che non c’è chiama un tempo altro, una generazione altra, una nuova fatica, una nuova energia, un nuovo amore. Di cui nessuno può certo, oggi tantomeno oggi, fare profezia: profezia di uomini e donne che vedano, sentano, guardino, tocchino, annusino, adoperino i loro sensi tutti, e ne coltivino i simboli concreti: perché capaci di ascoltare i rumori delle vite (e toccare la terra e bagnare le rose e cambiare le cose)”. 

 

Centro di Documentazione Oltre il Giardino: 

Mail: oltreilgiardinotrieste@gmail.com  

 

Link utili: 

www.parcodisangiovanni.it/  http://www.parcodisangiovanni.it/ 

www.lacollina.org/  https://www.lacollina.org/ 

www.itineraribasagliani.org/  https://www.itineraribasagliani.org/ 

www.palinsestobasagliano.info/  https://www.palinsestobasagliano.info/