Memorie di luoghi, di storia, e di passioni vissute attraverso il servizio fotografico del nostro fotografo Ferdi Terrazzani ed alle parole della nostra inviata Lucia Braida.

Appartengo alla generazione che è cresciuta con le cartoline delle vacanze; non che ci fossero molte occasioni di vacanza, per noi, specie dopo il terremoto. Ma quando, nella fessura della cassetta della posta, intravedevo un pezzettino di paesaggio a colori aprivo trepidante la portella per “andare in vacanza” con la fantasia, guardando e imprimendo avidamente negli occhi e nella memoria immagini di luoghi sconosciuti, più o meno lontani, che amici e parenti ci inviavano. Conservo ancora gran parte di quelle cartoline e guardarle è come viaggiare. 

 Ora vorrei mandarvi qualche cartolina da Erto e Casso, ma non so da che parte cominciare, a quale dare la priorità. Quando penso a questa vallata mi investono cento, mille immagini e soprattutto cento, mille emozioni, parole, pensieri che non riuscirò a mettere interamente sulla carta. Perché Erto e Casso non si possono spiegare a parole, non ce ne sono abbastanza, non esistono termini adatti per descrivere quel che c’è qui. Poi ognuno può ricavarne un’impressione diversa, ma sono sicura se che ci confrontiamo in cento, mille persone, qualcosa in comune lo abbiamo portato via, da questi luoghi. Le cartoline sono la memoria dei luoghi e qui di memoria ce n’è tanta da sentirsi quasi sopraffatti; dalla memoria geologica, che emerge in maniera preponderante, alla memoria di antichi mestieri e tecniche costruttive particolari, che per chi si avvicina a Erto e Casso diventa una “caccia al tesoro”, alla memoria di quella vicenda che affiora sulle labbra di tutti quando si pensa a questo posto: la diga del Vajont, il disastro del Vajont. Ve lo dico subito, Erto e Casso e dintorni non sono solo “il Vajont” ed è bene che ve ne rendiate conto subito, altrimenti vi perdete una miriade di cartoline meravigliose, positive, stupefacenti, di un territorio che vi può lasciare sensazioni talmente forti da conservarle a vita Perché qui tutto è “forte”, tutto è amplificato in modo sorprendente. Non è cosa per “deboli di cuore”; le case, la gente, le montagne, i colori, le rocce emanano una forza prorompente. La forza della resilienza, dell’amore per la propria terra che va oltre ogni ostacolo, ogni ferita, ogni cambiamento; la forza derivata da una vita non certo facile, in un territorio che non regala comodità ma in cambio della fatica concede visioni di una bellezza indescrivibile. 

 Non ve ne abbiate a male, abitanti di Erto e Casso, se non riconoscerete sempre la vostra realtà nelle mie parole; ciò che scrivo qui è la mia piccola esperienza personale, di una che ha appena “grattato la superficie” di un mondo che richiede tempo e curiosità per essere scoperto, e che forse non rivelerà mai del tutto la sua essenza e i suoi segreti. In questo mio racconto non vi riempirò la testa di dati, a Erto e Casso ci torneremo nel prossimo futuro, per approfondire tutto ciò che merita mostrato, conosciuto e valorizzato.  

 Una ferita che non guarisce 

Questa vicenda la conosce tutto il mondo; ne avrete sentito parlare fino all’esasperazione, ma finché non venite qui non potete capirla del tutto. Ne parlo subito, perché è la prima cosa che salta all’occhio. Un disastro annunciato, una profonda ferita che non si rimargina, un esempio (dal quale trarre un insegnamento, anche se spesso l’uomo non è capace di imparare dai suoi errori) di ciò che succede quando l’interesse supera di gran lunga il buonsenso. La tragedia del Vajont, di cui quest’anno ricorre il 60° anniversario e che sarà ricordata con molte iniziative, è stata definita in molti modi.  Ma quando siete sulla strada che porta nella vallata c’è qualcosa che attira immediatamente la vostra attenzione. Sembra artificiale, tant’è imponente e liscio; sul Monte Toc, che sia inverno o estate, l’enorme piano di scivolamento della frana è evidente più di qualsiasi gigantesca insegna luminosa e lascia senza fiato. Da lontano non se ne percepisce la grandezza e, soprattutto, è quasi impossibile immaginare che tutta quella parte di montagna che “manca” sia scesa a valle nell’arco di pochi istanti, cambiando la morfologia stessa del territorio, “sfrattando” il profondo lago che l’uomo aveva creato grazie alla costruzione della diga e riversandolo ovunque, come un immenso tsunami, a cancellare case, persone, animali e parte della storia di questi luoghi.  L’enorme “M” di Müller, così è stata battezzata la linea di distacco della frana del Toc, dal nome del geologo austriaco che la scoprì e la segnalò, vi guarderà da qualsiasi punto in cui vi troviate, come un perenne e minaccioso monito. E voi guarderete Lei. Con sgomento, con timore, con lo stupore che si prova quando la natura si mette in mostra e voi vi sentite piccoli, minuscoli, di fronte a una potenza senza limiti.  

 Neanche con un grande sforzo si riesce a percepire l’entità della frana, e se per qualche attimo la comprenderete in parte sarà come essere investiti da quell’onda che il 9 ottobre del 1963 ha cancellato quasi 2000 vite. Se andate a visitare la diga ci passerete sopra, ma non ve ne renderete conto. Se prendete la strada che va verso il Toc, verso il piano di scivolamento, ci camminerete sopra per chilometri. Camminerete su una parte di quasi 300 milioni di metri cubi di frana. E vedrete strane torrette di pietra, strati di roccia piegati nei modi più assurdi, proiettati verso Erto e Casso, frantumati e trasformati in qualcosa di confuso e incoerente. Vedrete, a tratti, quel che è rimasto del lago, di un color turchese profondo e dalle acque placide. Avvicinandovi al Toc vi sentirete ancora più piccoli, sotto i lastroni del piano di scivolamento, smisurati, incombenti, levigati. La natura probabilmente ci ha provato, a nascondere quella gigantesca ferita. La “M” è contornata da alberi, quelli rimasti da prima e quelli cresciuti dopo la frana. Ma su quel piano e sui ripidi pendii ricoperti di ghiaia e sassi non cresce nulla. Se però approfitterete delle visite guidate che spesso si organizzano qui potrete scoprire quell’inconsueto “mix” di specie arboree e floristiche d’alta e bassa quota, mescolate tra loro quando tutto ciò che stava “in alto”, sul Monte Toc, è sceso nella valle e ha continuato a crescere a un’altitudine che non era più la sua, adattandosi e convivendo con la vegetazione delle quote più basse. La natura sorprende sempre e ci insegna che sopravvivere, rinascere, ricrescere è possibile, con pazienza e tenacia e tanto, tantissimo spirito di adattamento. Con cautela potrete anche scendere al lago e da lì spaziare con lo sguardo su entrambi i fronti della vallata e sui monti che la circondano. Per tutto ciò che concerne la storia della diga del Vajont, la frana del Toc e le sue conseguenze, le possibilità di approfondimento sono davvero tante. 

 La Memoria indelebile 

Il disastro del Vajont non si può e non si deve dimenticare, e in tanti si sono aggregati e hanno promosso, nel tempo, iniziative per mantenere la Memoria, non solo di questo tragico evento ma dell’anima di Erto, Casso, degli insediamenti cancellati o sopravvissuti al 9 ottobre del ’63 e di quella che era la vita di “prima”. Dal Parco delle Dolomiti Friulane alla Fondazione Vajont, all’EcoMuseo del Vajont e al Comune di Erto e Casso, avrete modo di conoscere questa vicenda e molto altro fin nei dettagli. Una visita al coronamento della diga è d’obbligo; alta oltre 264 metri, ha resistito alla frana e all’onda che l’ha scavalcata, cancellando Longarone e altri insediamenti abitati a valle. Vi consiglio però anche di prenotarvi per le visite guidate più lunghe e complete alla diga e ai luoghi della Memoria, organizzate in diversi periodi dell’anno. Oltre alle mostre dell’EcoMuseo, presso il Centro Visite del Parco Dolomiti Friulane situato a Erto troverete i percorsi espositivi “Vajont: immagini e memorie” e “La catastrofe del Vajont – Uno spazio della Memoria”. La prima sezione ospita un percorso che illustra la vita nella vallata prima della tragedia, mentre la seconda parte descrive in modo dettagliato e scientifico la progettazione e costruzione della diga e quel che ne seguì.  Recentemente è stata inaugurata la “sala emozionale”, nella quale è possibile vivere gli ultimi minuti prima della frana del Toc e l’evento stesso in modo più immersivo; l’esperienza, seppur breve, fa percepire l’angoscia dell’avvenimento, i suoni, il vento, i tremori della frana in movimento e le voci della gente, terrorizzata e frastornata. Profonda commozione generano anche gli oggetti ritrovati e salvati dal fango ed esposti nelle sale, così come le testimonianze scritte dei sopravvissuti; brevi frasi o racconti più lunghi che fanno rabbrividire e che rimangono impressi nella mente. Ma ora passiamo alla prossima cartolina, virtualmente spedita dai borghi di Erto e Casso. 

 Profili di pietra 

Erto e Casso, nel 1976, sono stati dichiarati Monumento Nazionale; sono tra i borghi più belli che io abbia mai visto. Entrambi sono stati edificati utilizzando la pietra estratta dalle cave della zona; il risultato è un insieme variopinto di pietra bianca, grigia, di diverse sfumature ma soprattutto di quel marmo noto come “ramello rosso di Erto”, più conosciuto con il nome “ammonitico rosso”. La malta di calce necessaria si ricavava nelle numerose fornaci sparse nella valle; i tetti, anticamente, erano di paglia o di scandole in legno, ma ancor oggi si ammirano interi tetti fatti di sottili lastre di pietra. I due paesi erano autonomi in tutto; oltre alle attività agricole e di pastorizia la zona brulicava di attività artigianali e commerciali, per non parlare dei locali pubblici, osterie e rivendite di generi alimentari, mulini. I tanti artigiani erano veri artisti nella lavorazione della pietra, del legno, del ferro; le donne trasportavano il carbone di legna prodotto in loco fin sul Piave e il commercio ambulante degli oggetti realizzati in valle era una risorsa e una preziosa forma di sostentamento. Numerose tracce di questo passato sono visibili nelle mostre dell’EcoMuseo Vajont, a Erto.  

 Erto 

La prima volta che ho visto “Nèrt”, Erto, era inverno. La “nuova Erto” stava lì, sopra la strada principale, ma io e Ferdi siamo scesi nella “vecchia Erto”, che ancora vive solo grazie all’amore e alla caparbietà di quanti hanno lottato e si sono ribellati all’esilio, dopo il Vajont. Nella vecchia Erto non si va in macchina, le auto non potrebbero passare in quelle strette vie lastricate di pietra, dove i nostri passi non fanno rumore e le case, addossate una all’altra, mostrano i due volti del paese e suscitano sensazioni contrastanti.  Sento poche voci rimbalzare tra i muri che, in una giornata nuvolosa e fredda come quella che ci ha accolti, sembrano quasi incolori. Mi soffermo ad ammirare abitazioni riportate a nuova vita, curate in ogni più piccolo dettaglio, dove si conservano tracce del passato. Numeri civici incisi nella pietra, scritte sui muri che pioggia, gelo e sole non hanno cancellato, acciottolati che a volte si fanno ripidi e, in mezzo alle case che sembrano gioielli, altre case semidistrutte sono come ferite aperte, buchi nel paesaggio percorsi da echi di voci lontane nel tempo, occhi che guardano ancora verso il Toc.  La bellezza di Erto è struggente, anche d’inverno. La seconda volta, quest’anno, ci torno per i “Cagnudei”, la rappresentazione della Via Crucis. Fa sempre freddo ma il borgo sembra trasformato; a parte i tanti turisti che arrivano qui fin dalle prime ore del pomeriggio, anche dall’estero, che si distinguono per le macchine fotografiche e gli sguardi che lanciano, stupiti, tutt’attorno, Erto è animata da bambini, giovani, uomini e donne di ogni età. Sembrano uscire perfino dai muri! Tutti si danno da fare per preparare ciò che serve per la rappresentazione sacra. Qui ho l’occasione di fare conoscenze “importanti”: Ponzio Pilato, gli Apostoli e il Cristo, che mi parla dei famosi “Libri di San Daniele” e di quanto tempo ci mette ad arrivare lassù da Erto, per il sentiero più ripido: tempo che ha davvero del miracoloso! Ma qui anche uomini e donne sembrano di pietra; temprati, abituati a una vita non certo “confortevole”. Poche smancerie e tanta azione, per loro “andare in salita” è il pane quotidiano e pare impossibile riuscire a scalfire quella dura scorza ma, quando sotto gli occhi intensi e indagatori appare un sorriso, ti fanno sentire a casa. In quest’occasione tutto il paese si riunisce, si unisce per un obiettivo comune. Ho visto di persona con quanta intensità e serietà si spendono per la Via Crucis e come la rievocano fin nei minimi particolari: prima dell’Ultima Cena tutti in chiesa per la Funzione, e la processione per le vie di Erto è seguitissima, capeggiata dal più anziano del paese che, in testa al corteo, porta l’asta con il gallo.  Guardo quest’uomo, che pur con l’aiuto di una stampella cammina tenendo il passo, lo sguardo fiero e fisso davanti a sé: è Osvaldo Corona, nato nel 1933 e, purtroppo, mancato da poco. Memoria storica di Erto, era spesso interpellato per le esperienze vissute in guerra e per le sue conoscenze sul paese; era un sopravvissuto, anche al Vajont. A quel tempo lavorava a Erto come tassista e, la sera del 9 ottobre 1963, avrebbe dovuto essere per strada con a bordo gli operai che lavoravano a Longarone. Si salvò solo perché aveva la macchina guasta, in officina. Dopo il Vajont fu costretto a emigrare in Germania per lavoro. Mi è rimasto impresso il suo sguardo, il suo portamento fiero e il carisma che emanava. Seguo con Ferdi tutta la rappresentazione della Via Crucis, lungo le strette vie acciottolate di Erto e poi su, verso la collina dove si svolgono le scene dell’orto degli ulivi, il processo a Gesù, la flagellazione e infine la crocefissione. Il Cristo e i ladroni si portano a spalla le pesanti croci, che in cima al pendio vengono issate. In quel momento ero assorta in contemplazione delle tre croci che spiccavano nella notte; qualcosa sembrava “chiamarmi” e mi sono girata, posando lo sguardo sulle case di Erto, illuminate da calde luci e, di fronte, ho fissato la “M” del Monte Toc, bianca e ben visibile anche al buio.   La Via Crucis di Erto ha un forte simbolismo, non solo legato al voto fatto nel 1631 per scongiurare l’epidemia di peste nera che minacciava la vallata, anno in cui è iniziata la rappresentazione a Erto e che si rinnova annualmente da allora. Le immagini che stavo guardando da quel pendio mi parlavano della passione di Cristo e di quella di Erto, della croce portata da Gesù e delle croci dei morti del Vajont, della morte e resurrezione di un Dio e di un paese.  Erto è forte, scolpita nel tempo, e mostra tanti volti quante sono le stagioni, e forse anche di più. La terza volta ci sono stata pochi giorni fa e il paese aveva…cambiato colore! Le case di Erto erano calde delle sfumature del marmo rosso, il sole illuminava tetti e muri; il verde di piante rampicanti e i colori dei fiori incorniciavano la bellezza intensa del vecchio borgo. Le vie risuonavano di voci allegre; l’immagine di tante persone, sedute fuori dagli usci delle case, su piccole panche in pietra o sedie di cucina portate all’aperto per l’occasione, mi ha provocato un tuffo al cuore e un ricordo improvviso. Sono passata salutando, sorridendo, scambiando qualche parola e mi sembrava di tornare indietro di tanti anni, quando in tutti i nostri piccoli paesi, nella bella stagione, ci si sedeva fuori casa assieme ai vicini, agli amici, e si chiacchierava.   Un divertimento “povero” ma autentico, di grande valore umano. Erto è “vera”, ti conquista; è passata attraverso l’inferno e ha saputo ricreare il Paradiso, e conservare la Memoria di uno stile di vita semplice, genuino, che in tanti altri luoghi si è perso. Erto è magnifica! 

 Casso 

A Casso finora ci sono stata una volta sola, due se vogliamo contare la recente quanto veloce sortita presso il “Nuovo Spazio”, il Centro sperimentale per la Cultura Contemporanea della Montagna e del Paesaggio nato nella vecchia scuola del paese, danneggiata dall’onda del Vajont e in seguito ristrutturata. Sull’edificio è stata installata una struttura metallica e alcune rampe di scale che portano a un’ampia terrazza panoramica. Ecco, è da qui che davvero si capisce l’immensità della frana del Toc. Sulla destra, in basso, la vegetazione estiva non riesce a celare completamente la diga, che da qui sembra addirittura piccola, se confrontata con tutto il resto.  Dove una volta c’era il lago si è insediata una montagna. Dalla terrazza, guardando il piano di scivolamento del Toc, m’immagino tutta quella massa rocciosa che, alberi, prati, case, stalle compresi, improvvisamente si muove in un fronte compatto e scende a valle e risale in parte sull’altro versante. Un’onda di roccia che muove l’altra onda, quella del lago, che si alza imponente, si divide nei pressi del costone che ora nasconde Erto e si lancia a velocità impressionante a cancellare tutto ciò che si trova sulla sua strada, a monte e a valle della diga.  Casso probabilmente si è salvata per miracolo; guardando il paese dall’alto sembra che debba scivolare anch’esso a valle, proprio poco a monte della diga. Invece è ancora qui, con le sue caratteristiche case strette e alte, anche a cinque piani. Perché qui lo spazio è quel che è e bisognava “guadagnare terra” per coltivazioni e pascoli. Casso, vista di fronte, sembra un paese uscito dai presepi natalizi. File di casette disposte lungo le strette vie acciottolate, incroci di vicoli con angoli surreali, splendidi tetti in lastre di pietra.  Anche a Casso si va a piedi, si cammina lentamente con lo sguardo attento, per cogliere i tanti particolari costruttivi che caratterizzano le case. Così come a Erto, sopra gli stipiti di molte porte e finestre vedo i remenàth, piccoli archi in pietra indispensabili per scaricare il peso dei muri sovrastanti; e poi la busa dal fèuc, l’apertura orizzontale sopra le porte che consentiva l’uscita dei fumi del fuoco, in assenza di canne fumarie. E ancora le scale esterne, che non erano un elemento decorativo ma funzionale, perché le camere al piano di sopra venivano utilizzate solo nella stagione calda e una scala interna avrebbe disperso il calore del fuoco durante l’inverno. Come dicevo all’inizio, passeggiare qui equivale a fare una “caccia al tesoro”, in cerca di quei piccoli particolari che raccontano la vita e le abitudini dei due paesi.   Qui il colore del marmo rosso risalta ancor di più che a Erto, anche in una giornata nuvolosa; ogni tanto appoggio una mano ai blocchi squadrati di pietra, come per “sentire” meglio l’anima delle case. A Erto e Casso non ho mai percepito rassegnazione, solo un grande orgoglio di appartenenza a queste terre e la voglia di non permettere che vengano sepolte dalla polvere dell’abbandono, così come non è stato permesso che fossero irrimediabilmente sepolte da acqua, fango e sassi. In svariati punti dei muri vedo spuntare le forme arrotolate delle ammoniti, che raccontano la storia ben più lunga di queste montagne. Non sono ancora consapevole che a breve le ritroverò, in una versione ben più “gigante”. In questo momento penso solo ai milioni di anni in cui la natura ha plasmato le montagne, ha scatenato lente ma inesorabili spinte tettoniche che hanno deformato le rocce, provocando antiche frane che già avevano compromesso la stabilità del Toc; ruscelli e torrenti hanno scavato profonde valli e ora alcuni scorrono in strette forre, o in sconosciuti anfratti nel cuore dei monti. La natura ha donato a questi territori molte risorse per il suo sostentamento, anche se il prezzo richiesto per utilizzarle è sempre stato alto.  

 Cava Buscada 

Da tempo io e Ferdi avevamo promesso a Roberta Corona di andare a trovarla, al Rifugio Cava Buscada, che gestisce assieme al marito Giampietro. Finalmente il meteo si è rimesso al bello e pochi giorni prima di scrivere queste righe ci siamo andati. Qui vi farò solo una piccola panoramica, perché lassù c’è abbastanza materiale da riempire un Magazine intero. Ma approfitto del fatto che siamo ancora nella bella stagione e che il Rifugio sarà aperto nei weekend, finché le condizioni meteo permetteranno di arrivarci (cioè più o meno fino all’autunno inoltrato, salvo nevicate premature), per invitarvi in questo luogo da sogno. Premetto che la Val Zemola, raggiungibile da Erto, è una vallata incredibile per la sua conformazione e per le particolarità geologiche, oltre che per la bellezza selvaggia; lungo la strada troviamo Casera Mela, da cui parte una delle stradine per arrivare a Cava Buscada. Proseguendo ancora un po’ si può arrivare alla piccola Casera Ferrera, secondo punto di partenza che poi si congiunge all’altra via. Se sbagliate strada andrete verso il Rifugio Maniago, anch’esso meraviglioso punto d’appoggio per gli amanti della montagna, che festeggia proprio in questi giorni i suoi 60 anni. Noi siamo saliti lungo i boschi acquistando rapidamente quota; una delle caratteristiche di quest’area è che dal fondovalle alle cime dei monti è tutto molto…erto! I dislivelli sono notevoli e, di conseguenza, i panorami mozzafiato. Quasi tutto il percorso è ombreggiato, fino ad arrivare all’ultimo tratto e alla galleria, che da lontano sembra sbucare direttamente in cielo. Non si vede bosco oltre, né la strada, e infatti uscendo dal tunnel dovete girare subito a destra, altrimenti rischiate di tornare a fondovalle per una via un po’ troppo…rapida.  Ci fermiamo qui a scattare qualche foto; già da questo punto ciò che dovrei inviare non è una cartolina, ma un poster. Il cielo è di un blu che fa quasi male agli occhi, il verde dei prati e degli alberi sembra sia stato ritoccato al computer e dai pendii attorno emergono rocce di più tonalità di rosa. Il Rifugio è ormai in vista, adagiato a 1800 metri di quota in mezzo a tutto quel paesaggio da favola. Ci arriviamo in un attimo e le mie esclamazioni si sentono distintamente da lontano; Roberta e Giampietro ci accolgono con sorrisi calorosi, io sono frastornata da tutto ciò che vedo e che la mia mente fatica a registrare come reale.  Di fronte al Rifugio un’imponente piega rocciosa nella montagna, sull’altro lato della valle, svetta fino al cielo. Sulla sinistra vedo il Rifugio Maniago, sotto le imponenti pareti del Monte Duranno. Ero abituata a vedere questa montagna dal versante di Cimolais, da dove assomiglia decisamente al Cervino, ma anche il…”lato B” è meraviglioso. Dietro e attorno al Rifugio è tutto un fiorire di marmo ammonitico rosso e, naturalmente, di ammoniti incastonate nella roccia. Alcune sono grandi come gubane! Roba da far schizzare gli occhi dalle orbite.  A bocca aperta mi lascio condurre da Giampietro e Ferdi più in alto, in un vero e proprio museo a cielo aperto che ci catapulta nel mondo di Cava Buscada, dove si estraeva il marmo che, grazie al duro lavoro e a ingegnose soluzioni di trasporto, veniva portato a valle e venduto in tutto il mondo. Giampietro ci ha fatto da guida, raccontandoci la storia della cava e della dura vita dei cavatori. Non vi darò ulteriori dettagli, perché questa storia merita uno spazio a sé, ampio e dedicato; ve ne parleremo nei prossimi tempi, ma intanto voi potete andare di persona a scoprire questa testimonianza di vita e le montagne che la circondano.  Giampietro ci ha portati anche in altri luoghi lì attorno; mentre lui e Ferdi andavano a vedere un “Landre”, grande caverna nascosta alla vista, io mi sono lasciata condurre dalla curiosità su una piccola cima che vedevo davanti a me. Da lì, oltre a maestose montagne e pendii erbosi inclinati in modo impressionante, si vede distintamente la valle del Piave e il fiume che scorre sul fondo. Dopo una lunga e approfondita visita, ammirando campi solcati nella roccia, fiori e cime, torniamo al Rifugio e ci abbandoniamo a squisite libagioni, continuando a chiacchierare, anche con gli escursionisti seduti nei tavoli accanto a noi, visitando l’interno della struttura, che dispone di 21 posti letto, intuendo man mano tutte le grandi potenzialità di quel luogo. Sarei rimasta lì per giorni interi, nel silenzio delle Terre Alte e nello splendore della natura incontaminata e protetta della Val Zemola. 

Non solo Vajont 

Cava Buscada rientra nell’Area UNESCO delle Dolomiti Friulane, così come altre bellezze del comprensorio di Erto e Casso. Da questo punto potete raggiungere altri luoghi d’incredibile fascino, come le “Laste” o Libri di San Daniele del Monte Borgà. Anche a fondovalle (o quasi), nel Comune di Erto e Casso potrete scoprire il territorio grazie a un’ampia rete di itinerari. Dal sentiero “Tra leggenda e realtà”, che attraversa il borgo di San Martino e conduce alla scoperta delle antiche leggende del luogo, al “Sentiero del Carbone”, un tempo utilizzato per il trasporto di questa risorsa da Erto a Longarone e ora divenuto un bellissimo e facile percorso, che permette di arrivare all’abitato di Casso costeggiando la parte alta di Erto o viceversa, con alcuni punti di osservazione privilegiati.  Molto suggestivo il “Troi de la Moliésa”, che offre un’ampia panoramica e una visione ravvicinata della diga e della frana del Vajont; il giro del lago lo potete fare anche in macchina, in bici o in moto e, dalla località Pineda, scendere a piedi fino allo specchio d’acqua. Per gli appassionati delle due ruote c’è la pista ciclabile di Erto, il cui punto di accesso sud-ovest si trova poco prima dell’ingresso del Centro Storico, arrivando dalla direzione Longarone. Sulla SR251, prima del bivio che incrocia Via Roma, si noterà un’area pic-nic fornita di chioschetto in legno e recintata, con comodo parcheggio per l’auto. Da vedere poi fontane storiche, chiese e chiesette, altre borgate e tutte le sculture e opere disseminate a Erto, Casso e nei dintorni, anch’essi meritevoli di una visita; pure il cimitero rappresenta una peculiarità, con vere e proprie sculture realizzare dalle mani sapienti degli scalpellini. Gli appassionati dell’arrampicata non possono perdere l’opportunità di provare una o più delle circa 300 vie attrezzate sulla gigantesca palestra di roccia che si trova a poca distanza dalla diga, una delle falesie di arrampicata più conosciute al mondo. Nella parte centrale si concentrano le vie di maggior difficoltà, che arrivano fino all’undicesimo grado, mentre una tratta è dedicata ai “climbers” in erba. Anche gli eventi hanno un ruolo importante nel Comune di Erto e Casso; oltre alle celebrazioni del Venerdì Santo e della settimana di Pasqua, nell’arco dell’anno si organizzano competizioni sportive, manifestazioni culturali, escursioni e momenti di festa, come nel caso dell’evento “Tra il Vecchio e il Nuovo” del 15 agosto, per riscoprire i lavori e i sapori di un tempo.  

 L’esilio e il ritorno 

Prima di concludere, per il momento, con questa serie di cartoline da Erto e Casso, diamo la parola a una persona che ha vissuto la morte e la rinascita di Erto; il Sindaco Antonio Carrara, detto “Fernando”, che condivide con noi la sua preziosa testimonianza: “Nell’ottobre del ‘63 avevo quattro anni e mezzo e vivevo con le mie zie Tina e Osvalda, perché mia mamma aveva problemi di salute. La sera del 9 ottobre è passato lì per caso mio papà, col camioncino, e mi ha detto che la mamma era stata dimessa dall’ospedale e che potevo andare via con lui.  Penso che siamo stati gli ultimi a passare sul ponte Cerenton, saranno state le 19.30, 20.00. Son partito da Cèva, frazione di Erto, e ho lasciato la cuginetta, della mia stessa età, dicendole che ci saremmo rivisti all’indomani, perché giocavamo sempre insieme. Quel domani per lei non c’è mai stato, sono morti tutti.  Dal giorno successivo ci hanno trasferiti a Cimolais e lì ho vissuto per tre anni, fino al 1966; la mia famiglia è stata una delle prime a ritornare a Erto, anche perché noi avevamo la stalla, le bestie da accudire. Dovevamo andare a Erto per forza, anche quando si poteva fare solo il permesso giornaliero per tornare in paese. Ma poi mio papà si fermava lo stesso; ricordo ancora quelle sere senza corrente elettrica, mettevamo un sacco sulla finestra perché i carabinieri che passavano non vedessero la luce della lanterna in casa. Mio papà è diventato Sindaco circa un mese dopo la tragedia e ha vissuto in prima persona l’emergenza; io ho potuto vivere la ricostruzione, la rinascita della mia comunità. A casa nostra c’erano sempre riunioni della Giunta e del Consiglio, io sedevo fuori su una panca ma ascoltavo tutto. Non è stato facile gestire l’emergenza, quella volta non c’era la Protezione Civile di adesso e mio papà faceva lo scalpellino, non era un generale; per di più le autorità non erano dalla nostra parte, volevano che lasciassimo il nostro paese.  Sono cresciuto ascoltando le difficoltà del momento; non avevamo più il prete, non avevamo più la luce, ci era stata staccata l’acqua. Pian pianino la nostra comunità si è riappropriata di tutte queste cose ma con grande fatica. Noi bambini partecipavamo a tutto, ad esempio se c’era un posto di blocco sulla strada noi eravamo lì. Il culmine di tutto è stato nel ’71, quando c’è stata la divisione dei due comuni; siamo partiti tutti quanti per l’occupazione del municipio di Cimolais e siamo rimasti lì per cinque giorni.  Poi nel 1980 ho iniziato a lavorare in Comune come guardia boschiva e ho visto dall’interno le difficoltà a cui hanno dovuto far fronte gli amministratori che mi hanno preceduto. È stato difficile risolvere tante cose, però ce l’hanno fatta e alla fine è il risultato che conta. Io ringrazio veramente tutti quanti e vorrei dedicare questo sessantesimo anniversario del Vajont a chi ha lavorato affinché la nostra comunità rimanesse sul territorio.  Ora il futuro di Erto e Casso è legato al futuro di tutti i comuni della montagna; le istituzioni devono decidere se i comuni montani devo vivere o morire. Ci deve essere una politica mirata per la montagna; i problemi di Erto non sono solo di Erto, sono gli stessi della Val Tramontina, della Val d’Arzino e di tante altre vallate. Serve una presa di posizione forte e si deve dare qualcosa in più alla montagna, anche qualche vantaggio economico. La montagna va vissuta tutti i giorni, non solo nei fine settimana o durante le vacanze. Non basta il turismo per mantenerla viva, ci vogliono i servizi per le comunità che si impegnano a prendersi cura del territorio e a contrastare lo spopolamento, che è dannoso per tutti”.  

 nformazioni, prenotazioni visite, approfondimenti: 

 Parco Naturale Dolomiti Friulane – Centro Visite di Erto e Casso

Piazzale del Ritorno, 3 – 33080 Erto e Casso (PN) 

Tel.: +39 042787333 

Mail: info@parcodolomitifriulane.it 

Web: https://www.parcodolomitifriulane.it/  

 

EcoMuseo Vajont – “Continuità di Vita” 

Via 9 Ottobre, 4 – 33080 Erto (PN)  

Tel: +39 331 587 4436 

Mail: ufficio@ecomuseovajont.net  

Web: https://www.ecomuseovajont.net/  

 

Fondazione Vajont 

Web: https://fondazionevajont.org/  

 

Informazioni e curiosità su Erto e Casso 

http://www.ertoecasso.it/  

 

Pagina Facebook Erto “Riscoprire” – Dalla terra alle mani 

https://www.facebook.com/riscoprirelavita?locale=it_IT